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ToggleDopo aver presentato una breve storia del cinema giapponese, questa volta faremo una carrellata dei generi più rappresentativi. Partiremo dal chanbara e, attraverso filoni più o meno noti come gli horror e i pinku eiga, arriveremo ai colossi dell’animazione come lo Studio Ghibli. Prepara i popcorn!
Il genere chanbara
Contestualizziamo: dopo la seconda guerra mondiale il Giappone era occupato dalle forze alleate comandate dal generale MacArthur. Venne imposta una nuova costituzione che, tra le altre cose, vietava di commercializzare film che promuovessero valori feudali, considerati retrogradi.
Il giogo della censura non si allenterà prima degli anni ’50, così da quel momento fiorirà per molti anni il genere chanbara.
Il termine significa letteralente “film di combattimento con la spada”, e in pratica non è altro che il filone di film cappa e spada, sottogenere dei jidai-geki, con protagonisti i samurai e ambientati nel periodo Edo.
Ma perché questo genere con protagonisti di un’epoca tanto superata riscosse tanto successo, monopolizzando il mercato cinematografico, alle soglie dell’età postmoderna? La risposta più probabile e paradossale è che i giapponesi, in piena crisi d’identità post imperiale, si trovarono a riflettere su cosa ne sarebbe stato dei loro valori, e per farlo guardarono al passato. Le lotte del passato erano metafore di quelle del presente. Non è un caso che a dominare la scena di queste opere venga spesso scelta la figura del ronin, il samurai senza padrone, in perenne conflitto tra i rassicuranti ideali tradizionali giapponesi e la necessità di doversi adattare alla modernità contingente (e anche ammaliante, per certi versi). Una perfetta metafora del Giappone.
Va da sé che le trame di questi film si presentino torbide, infarcite di intrighi, crimini e doppi giochi, perennemente in contrasto con l’esigenza del ronin di rispettare il suo codice di dovere e umanità.
Tra i registi più importanti del genere sicuramente va citato Hideo Gosha: il regista di Akasaka scolpisce cinicamente l’emblema del samurai fuorilegge e lo inserisce in un mix di generi tra commedia, dramma e azione. Tra le sue opere ricordiamo “Sanbiki no samurai” (I tre samurai fuorilegge), del 1964, e “Goyokin” (Là dove volano i corvi), del 1969.
Altro importante regista del genere fu nientemeno che Akira Kurosawa. Ebbene sì: il regista giapponese più famoso al mondo, infatti, deve la sua popolarità al genere chanbara. Citare i film cappa e spada del regista equivale a elencare il grosso della sua cinematografia. Su tutti ricordiamo alcuni dei più importanti: “Rashomon” (1950), “Shichinin non samurai” (I sette samurai, 1954), “Kumonoso-jo” (Il trono di sangue, 1957) , “Kagemusha” (1980) e “Ran” (1985).
Tra i beniamini più famosi del genere ricordiamo il personaggio di Zatoichi, lo spadaccino cieco, protagonista di ben 26 film nel periodo compreso tra il 1962 e il 1989.
Dagli anni ’70 in poi, con l’esplosione del cinema di arti marziali alla Bruce Lee, il genere chanbara perse i suoi contenuti, divenendo un genere d’intrattenimento puro, che abbondava in sangue e carneficine fini a sé stesse. Un esempio è la trilogia di Kamisomi Hanzo, prodotta dall’attore (e produttore) Shintaro Katsu.
Il genere kaiju
Tra i generi che il Giappone ha coniato, forse il più peculiare è quello dei kaiju: enormi mostri dalle forme teriomorfiche si sfidano in epiche battaglie che hanno come scenario ricorrente le città giapponesi più importanti.
La costante di questi film è la devastazione dell’ambiente circostante, a favore del puro divertissement dello spettatore.
Sul perché questo genere di film abbia tanto successo in Giappone, ci sarebbe da discutere per ore. Possiamo semplicemente accennare al fatto che il retaggio folkloristico nipponico, unito ai drammatici eventi apocalittici della guerra, la paura costante del nucleare e delle sue conseguenze catastrofiche tanto per la portata distruttiva quanto per il modo in cui muta in maniera irreversibile l’ecosistema, hanno sviluppato nel popolo giapponese questo gusto, se non proprio ossessione, per i disaster movie con protagonisti i kaiju.
Su tutti il più famoso ed esportato rimane il personaggio di Godzillla: nato nel 1954 a opera di Ishiro Honda come protagonista del film “Gojira”, venne successivamente doppiato in inglese assumendo il nome di Godzilla e diventando un’icona del cinema nipponico conosciuta in tutto il mondo. Ne sono la prova i numerosi sequel, più di 30, e i diversi remake hollywoodiani di cui è protagonista.
Oltre al potenziale cinematografico riproduttivo infinito, che coinvolge anche gli epigoni del lucertolone più famoso al mondo (Gamera, Mothra, Ghidora e Shin Godzilla, per citarne alcuni), ancora maggiore è la resa del fenomeno in termini di merchandising, vero motore dello sviluppo del genere. Non è un caso che la struttura produttiva dei kaiju verrà mutuata da quello che diverrà il filone dei “Super Sentai”, i team di supereroi.
Il filone yakuza
Un altro importante genere è quello degli yakuza eiga.
Queto filone esplose a cavallo tra gli anni ’60 e ’70: ormai stanchi del samurai senza macchia e senza paura, ligio al dovere e integerrimo, il pubblico concentrò dapprima le proprie simpatie sulla frangia più “sporca” della categoria, i ronin, ossia i samurai dall’atteggiamento licenzioso e senza padrone. Ma un’importante spallata all’accantonamento dei film di samurai va ricondotta alla politica giapponese, imbavagliata dal giogo dell’alleato/oppressore americano, che nel 1968 arriva a bandire l’uso delle katane e la figura stessa del samurai. No samurai, no party.
Negli anni ’60 inizia così ad attenuarsi la differenza tra samurai e yakuza, e il pubblico inizia a spostare la propria attenzione verso questi ronin postmoderni. Sotto l’egida di case di produzione pioniere del genere (su tutte la Toei: basti pensare che nel solo 1972 produsse 30 film), si avvia la transizione dai jidai geki (film in costume) agli yakuza movie. Non è un caso che i primi yakuza movie embrionali vengano chiamati chonmage yakuza eiga, con riferimento al chonmage, il nodo ai capelli proprio dei samurai (“eiga” significa invece “film”).
Proprio in quanto evoluzione del genere samurai, gli yakuza eiga sono più vicini ai western che non alle controparti cinematografiche gangster occidentali, discostandosi anche dall’immanenza dei noir, per elevare il genere a rappresentazione mitizzata e morale. Gli yakuza eiga ruotano attorno due temi principali: il dovere (giri) e l’umanità (ninjo).
Il primo film di genere yakuza di successo commerciale fu “Abashiri Prison”, diretto nel 1965 da Teruo Ishii, con protagonista Ken Takakura.
Ma è negli anni ’70 che gli yakuza eiga cambiano pelle e virano verso uno stile documentaristico, perdendo il contenuto moralistico a favore di una trattazione più immersa nelle pieghe degradate e immorali della società. I personaggi che non difettano in vigliaccheria e turpitudine segnano l’allontanamento definitivo dal codice samuraiesco.
Contemporanemante, il genere passa dalla categoria di B movie a quella di film di serie A: aumenta il budget e si dilatano i tempi produttivi. Non è un caso che nel 1975, sull’onda del successo del genere, Sidney Pollack dirigerà il blockbuster hollywoodiano “Yakuza”.
“Jingi Naki Tatakai” (Lotta senza codice d’onore, 1973), opera in 5 parti diretta da Kinji Fukasaku, è forse il più famoso titolo del genere.
I film J-Horror
Lunghe chiome nere, bianco pallore della carne e delle vesti, occhi iniettati di sangue e contornati dal nero del livor mortis: queste le basilari caratteristiche degli yurei, ossia gli spiriti malvagi, spesso donne, dal vissuto travagliato, il cui sentimento di rabbia è stato tanto esasperato in vita, da imprimersi in oggetti e luoghi dopo la morte. Niente di più di shintoista di una concezione animista dello spirito, che pervade la quotidianità ed è rinchiuso nella sostanza delle cose. Grandi passioni e grande dolore: sono questi i presupposti dei più famosi esponenti del cosiddetto j-horror, il cinema dell’orrore giapponese.
Lo schema alla base è sempre lo stesso: le più turpi azioni umane imprimono una maledizione nei luoghi in cui sono avvenute e a pagarne le conseguenze sono sempre terzi malcapitati, rei di essersi imbattuti in quei luoghi, anche solo poggiando un piede oltre l’uscio di una porta. Da quel momento chiunque ne entri in contatto sarà vittima di una vendetta sconfinata e inarrestabile.
Sostanzialmente questo genere deve tutto ad una manciata di film prodotti a cavallo tra il vecchio e nuovo millennio.
“Ringu” di Hideo Nakata (1999) e “Ju-On” di Takashi Shimizu (2000) sono divenuti talmente iconici nell’immaginario cinematografico che, dopo essere diventati famosi anche per il pubblico occidentale, sono stati oggetto di remake americani (oltre che di una sfilza di sequel).
Discorso leggermente a parte per Kyoshi Kurosawa che, con il suo “Kairo” (2001), spinge il j-horror verso l’autorialità e lo sconfinamento di genere.
I pinku eiga
Fu il film “Nikutai no ichiba” (Il mercato della carne) di Satoru Kobayashi a inaugurare il genere dei pinku eiga nel 1962.
I film rosa (questa è la traduzione del termine) altro non erano che opere orientate verso una rappresentazione spinta e disinvolta della sessualità tanto nelle tematiche quanto nei contenuti “espliciti”. Già, espliciti tra virgolette, perché la mano pesante della censura giapponese non permetteva (e tutt’ora non permette) di proiettare nei cinema scene esplicite di sesso, o anche soltanto mostrare organi genitali a favore di camera. Da qui l’ingegno dei registi del cinema pinku che, ricorrendo a tutta una serie di espedienti, riuscivano, se non a mostrare, quantomeno a far intendere molto chiaramente.
La filosofia produttiva dei pinku eiga, che più che una filosofia era un breviario di regole dogmatiche, imponeva budget irrisori, in cui era quasi impossibile rientrare, se non puntando sull’abilità dei registi di sfruttare le misere risorse a disposizione concentrandole in un brevissimo arco di tempo utile per girare il film. Buona la prima, insomma.
D’altro canto, visto il basso rischio d’impresa delle case di produzione, i registi avevano carta bianca nella sperimentazione delle soluzioni creative da loro ritenute più idonee. Per questo i film rosa hanno rappresentato una fucina di talenti registici giapponesi, che hanno beneficiato dell’esperienza nella direzione di questo curioso genere.
Dopo anni di successi e declino, dovuto al dilagarsi del porno home video, il genere visse una seconda giovinezza negli anni ’90 con il debutto di uattro registi, salutati come “Pinku no shitenno” (i quattro imperatori del pinku): Kazuhiro Sano, Toshiki Satō, Takahisa Zeze, e Hisayasu Satō.
Il cinema d’animazione
Il cinema d’animazione giapponese cominciò a dare i primi sussulti intorno agli anni ’10 del Novecento.
Inizialmente, gli embrioni di quelli che saranno gli anime venivano chiamati senga eiga, ossia film di linee.
Mano a mano che si affinava la tecnica di produzione, in termini di fluidità e precisione del disegno e qualità dei supporti di riproduzione, vennero alla luce le prime opere di una certa consistenza. Solo per citarne alcunie: “Momotaro” di Seitano Kitayama, del 1918, “Entotsuya Pero” (Lo spazzacamino Pero) di Yoshitsugu Tanaka, del 1930, e “Chikara to onna no yononaka” (Quello che conta al mondo sono la forza e le donne) di Kenzo Masaoka, del 1932 (prima opera a utilizzare il sonoro).
Ma ben presto l’animazione giapponese divenne uno strumento al servizio della propaganda: le mire espansionistiche del Giappone imposero di veicolare le ambizioni belliche del Paese anche attraverso l’animazione. Il modo perfetto per fare ciò (al pari di ciò che successe in America) fu quello di utilizzare alcuni personaggi che erano veri e propri beniamini nazional-popolari: Fukuchan (“Fukuchan no sensuikan”, Il sottomarino di Fukuchan, 1944, di Ryuichi Yokoyama) e Momotaro (“Momotaro umi no shinpei”, Momotaro il divino guerriero dei mari, 1945, di Kenzo Masao).
Sotterrata ogni velleità nazionalista a seguito dell’occupazione degli alleati, l’animazione giapponese, un po’ condizionata dagli usi dell’occupante americano, un po’ per tentativo di emulazione, si concentrò su opere che scimmiottavano gli stilemi dell’animazione disneyana: basti citare l’opera di animazione “Hakujaden” (La leggenda del serpente bianco) di Taiji Yabushita e prodotta dalla Toei, del 1958.
Pian piano l’animazione giapponese cercò di trovare una propria via, maggiormente fedele al gusto e allo stile nipponico: “Shonen Sarutobi Sasuke” e “Saiyuki”, opere rispettivamente del 1959 e del 1960, sono emblematiche di questo cambiamento.
Ma la vera rivoluzione copernicana fu l’avvento della televisione. È qui che l’animazione giapponese, sorretta e ispirata anche dal crescente mercato dei manga, iniziò a sfornare opere che diverranno iconiche in tutto il mondo. “Astro Boy” di Osamu Tezuka inaugurò questo connubio vincente (quasi 200 episodi televisivi tra il 1963 e il 1966), che fu sublimato dal genio di Go Nagai, creatore dell’universo dei mecha robot, protagonisti di diverse serie televisive di successo anche in Italia: Goldrake, Mazinger Z, UFO Robot ecc.
Se sul fronte televisivo il mercato era conquistato, mancava ancora la consacrazione cinematografica. Siamo nei primi anni ’80 quando nasce la risposta giapponese alla Disney: lo Studio Ghibli. Fondato a Tokyo il 15 giugno del 1985 da Isao Takahata e da Hayao Miyazaki, è una casa di produzione di film d’animazione di importante peso produttivo e con finalità pedagogiche, ma allo stesso tempo di grande valenza artistica. Pensate per attrarre in primis un pubblico infantile, le opere dello Studio si indirizzano allo stesso tempo anche a un pubblico adulto. Anzi, si potrebbe tranquillamente affermare che da noi non sono considerate adatte ai più piccini alcune rappresentazioni esplicite della violenza o certe tematiche grevi (se non proprio opprimenti) ricorrenti nelle opere dello Studio. Soprattutto a Isao Takahata si devono le opere che, pur incantevoli, più si rivelano di impatto e di particolare crudezza nella rappresentazione: su tutte “Hotaru no haka” (Una tomba per le lucciole, 1988) e “Kaguya hime no monogatari” (La storia della principessa splendente, 2013).
Ma è soprattutto il talento di Hayao Miyazaki a rendere celebre in tutto il mondo lo Studio Ghibli: i suoi film sono un inno alla nostalgia dei ricordi e all’amore verso la natura. Il messaggio ecologico è forte, i personaggi protagonisti dei suoi capolavori indimenticabili: Totoro, Porco Rosso, Nausica, Mononoke e chi più ne ha più ne metta. Talmente è alto il riconoscimento artistico della bravura di Miyazaki che, nel 2003, arriva anche il meritatissimo Premio Oscar per l’animazione, con “Sen to Chihiro no kamikakushi” (La città Incantata).
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Articolo realizzato in collaborazione con Domenico Fava di “Nippofili in Giappone”.