Locandina giapponese del film di Godzilla con il mostro che distrugge la città

Breve storia del cinema giapponese

Samurai, lucertoloni giganti, yakuza dal fascino sinistro, fantasmi in cerca di vendetta e astruse opere intellettualoidi da un lato, ma sessualmente audaci dall’altro. Il cinema giapponese è tutto questo, ma non solo. La terra del Sol Levante ha regalato (e regala) al cinema alcuni dei più grandi registi a livello mondiale: Ozu, Mizoguchi, Kurosawa, Oshima, Imamura, per citare solo alcuni dei più classici autori giapponesi, ma anche i contemporanei Mike, Kitano, Nakata, Kyoshi Kurosawa, Tsukamoto e Sono. 

Considerando che il Giappone è tra le più antiche e prolifiche industrie del cinema, vale la pena iniziare un viaggio alla scoperta della Settima Arte, così come si è evoluta nei decenni nel Sol Levante.

Le origini del cinema giapponese

Vi starete chiedendo: qual è stato il primo film prodotto in Giappone? La prima scena catturata da una macchina da presa risale al giugno 1899 e ritrae, con piglio documentaristico, delle geisha che suonano alcuni strumenti musicali. 

I primi film proiettati in Giappone furono importati ed erano brevi scene di vita quotidiana. Nel 1896 infatti venne presentato a Kobe il Kinetoscopio di Edison, e l’anno successivo il Cinematografo dei fratelli Lumiere. Fu un grande successo. 

Non appena i registi giapponesi iniziarono a prendere confidenza con il mezzo cinematografico, alla fine del secolo, le primissime produzioni furono film in costume, i jidai-geki, e sceneggiati ambientati in era Meiji. Si trattava di opere di cinema muto.

L’era del muto è dominata da figure sconosciute al nostro cinema, eppure tanto famose in terra nipponica da sovrastare in popolarità anche i più carismatici attori del cinema hollywoodiano: parliamo dei benshi. Si trattava di narratori incaricati di descrivere le scene agli spettatori mentre la pellicola veniva proiettata sullo schermo. Oltre a commentare il film, introducevano allo spettatore il contesto storico dell’opera e ne leggevano la sinossi. Queste figure scomparvero drammaticamente con l’avvento del sonoro (anche se cercarono di ritardarne l’avvento con insistenti pressioni).

Di questo lontano periodo sono giunte a noi ben poche testimonianze: a causa della natura volatile dei primissimi nitrati, unita al catastrofico terremoto del 1929 che devastò gli archivi contenenti le pellicole e alla distruzione portata dalla seconda guerra mondiale, più del 90% della produzione cinematografica nipponica del periodo del muto è andata persa.

Il samurai protagonista di Orochi
Un’immagine di Orochi, uno dei più famosi film muti giapponesi

Il cinema di propaganda del periodo bellico

In che contesto nasce il cinema di propaganda giapponese? Dopo la fine della prima guerra mondiale, il Giappone è politicamente debole sul piano internazionale. All’interno il Paese vive una rapida industrializzazione, osteggiata da una mentalità fortemente rurale e difficile da sradicare: i contadini sono legati alla terra e i militari temono un’occidentalizzazione e, più in particolare, un’americanizzazione.

Le spinte proletarie nelle campagne e nell’esercito,  alimentate dall’estrema destra, creano un cocktail letale di nazionalismo pronto a esplodere. La liberazione del Giappone dall’oppressore occidentale diventa talmente importante da esasperarsi in un delirante progetto di liberazione dell’intera Asia: a Tokyo, tra il 5 e il 6 novembre del 1943, si tiene la Conferenza della Grande Asia orientale.

Dalle parole ai fatti: nel 1931 l’esercito giapponese conquista la Manciuria e nel 1937 si perpetrerà il massacro di Nanchino.

Forte dell’alleanza con Germania e Italia, muoverà guerra direttamente agli Stati Uniti: il 7 dicembre 1941 il Giappone attacca a sorpresa, con un raid aereo, la base americana di Pearl Harbor, nelle Hawaii, causando l’entrata in guerra degli Stati Uniti. 

Così come avverrà per l’animazione (di cui parleremo separatamente), il medium cinematografico viene beceramente sfruttato come veicolo per ottenere consensi tra la popolazione. La qualità artistica di queste opere è discutibile, ma hanno grande valore come testimonianze di quel periodo storico.

Queste opere erano prodotte da società collegate ai gruppi giornalistici Asahi, Mainichi, Yomiuri, e, per lo più, commissionate dai ministeri dell’Esercito e della Marina,

Si trattava di cinegiornali, documentari e film culturali proiettati prima dell’inizio dei film in cartello, oppure in apposite sale a prezzi bassissimi. Tra i film di propaganda citiamo:  “Sakebu Ajia” (L’Asia alza la voce)  e “Hijōji Nippon” (Il Giappone in tempo di crisi) del 1933, “Tsuchi to heitai” (Soldati e terra) di Tasaka Tomotaka del 1939 e “Hawaii Maree oki kaisen”  (La guerra in mare dalle Hawaii alla Malesia) di Yamamoto Kajirō, del 1942, dopo l’attacco a Pearl Harbour.

Locandina del film Hawaii Maree Okikaisen
Una delle locandine del film “Hawaii Maree oki kaisen”

La golden age del cinema giapponese

A proposito di registi del cinema muto, iniziò con il muto uno dei più grandi e riconosciuti maestri del cinema giapponese: Kenji Mizoguchi.

Partito come attore e trovatosi quasi per caso a fare il regista, fu tra i più prolifici registi giapponesi: si parla di 50 film diretti in 10 anni, a cavallo tra gli anni 1920 e 1930. Amante di una regia essenziale, con minimi movimenti di macchina e pochi stacchi, si dedicò ai più svariati generi, dalla commedia al dramma sentimentale, con incursioni nel chanbara (cappa e spada). Vessato da tragiche vicende familiari (sua sorella venne venduta come geisha), mise al centro del suo cinema la donna, denunciandone la condizione di sfruttamento ed emarginazione nella società giapponese. 

Il miglior modo per esaltarne la carriera è ricordare che vinse per ben tre volte il Leone d’argento al Festival del cinema di Venezia: dapprima nel 1952 con “O-Haru, donna galante” (Saikaku Ichidai Onna), poi con “I racconti della luna pallida d’agosto” (Ugetsu Monogatari) del 1953 e, infine, con “L’intendente Sansho” (Sansho Dayu) nel 1954.

Altro alfiere dell’età d’oro del cinema giapponese fu Akira Kurosawa. Attivo fin dagli anni ’40, creò un binomio vincente e prolifico con l’attore Toshiro Mifune e si dedicò a dirigere per lo più film in costume. Insignito del Premio Oscar alla carriera nel 1990, fu sempre protagonista ai principali festival del cinema europeo tanto da collezionare premi e nomination tra Venezia, Cannes e Berlino. 

Dedicandosi per lo più ai jidai-geki (dramma storici), Kurosawa mise al centro della propria poetica la tradizione giapponese, anche se opere come il Trono di Spade, ispirato al Macbeth di Shakespeare, dimostrano come l’influsso occidentale era ben presente nella cinematografia del regista Iinoltre, negli ultimi anni della sua carriera, registi come  Martin Scorsese, Steven Spielberg and George Lucas, veri e propri fan di Kurosawa, lo supportarono economicamente nella produzione di opere quali Kagemusha (1980) e Ran (1985). Forse per questi motivi fu l’autore più apprezzato in Occidente. Non dobbiamo dimenticare che senza di lui non esisterebbe Star Wars.

Il terzo alfiere della Golden Age del cinema giapponese fu Yasujirō Ozu. Regista prolifico, le cui opere furono in parte distrutte durante gli eventi della seconda guerra mondiale, traspose nel cinema la sua indole ribelle.

Nel rappresentare spaccati di vita quotidiana del Giappone dell’era di massa, Ozu ironizza sulla società di consumi, come si vede nel film “Buongiorno” (Ohayo), del 1959. Ma l’ironia e la leggerezza si alternano, nella poetica del regista, a un disperato grido di aiuto: l’occidentalizzazione non è solo politica, ma anche culturale. La famiglia tradizionale giapponese sta morendo. Ozu ce lo dice apertamente in alcuni suoi indiscussi capolavori: “Tarda Primavera” (Banshun, 1949) e “Viaggio a  Tokyo” (Tokyo Monogatari, 1954), per citarne due.

Seppur più estemporaneo, si inserisce in questa età dell’oro e merita una citazione il jidai-geki di Teinosuke Kinusaga del 1953 “La porta dell’inferno” (Jigokumon). Fu ilprimo film a colori giapponese distribuito a livello internazionale e fece incetta di premi: due Oscar, tra cui miglior film straniero, e la Palma d’oro a Cannes.

Una scena del film Rashomon con Toshiro Mifune a terra ferito
Foto di Rashomon con Toshiro Mifune (a terra) e Daisuke Kato

La New Wave degli anni ’50-’70

Tra la fine degli anni ’50 e gli anni ’70 si affermò una corrente di registi giapponesi che rigettava le tradizioni e le convenzioni del cinema giapponese ed era in cerca di nuovi orizzonti e nuove sfide artistiche. 

Ispirandosi alla Nouvelle Vague francese, la New Wave giapponese partiva da un’importante e diversa premessa di base: non nasceva come controcultura opposta all’establishment delle grandi case di produzione, bensì si appoggiava a esse. Queste, a loro volta, speravano di risollevare lo stagnante cinema giapponese, sempre più soccombente rispetto alle nuove produzioni televisive, e affidavano le proprie speranze alla libertà creativa di registi emergenti. Fallita questa sinergia produttiva, il movimento crebbe autonomamente, autofinanziandosi. 

Analizzare la società giapponese, criticarla, metterla in discussione e rivoltarla: questo era ciò che premeva alla nuova ondata di registi giapponesi.  Va da sé che rivoltare la società e i suoi canoni significava rivoltare anche i canoni del cinema nipponico. Perciò, al posto di nobili, samurai e distinti borghesi, le opere della New Wave  hanno per protagonisti soggetti borderline come emarginati, criminali e delinquenti.

Disinibire i costumi sociali, spingendo sull’acceleratore della sessualità più esplicita, capovolgere il ruolo della donna e delle minoranze in generale.  Queste le principali ambizioni di registi come Nagisa Oshima e Shoei Imamura, artisti politicamente impegnati e con esperienze da critici cinematografici. Provocatorio e cinico esteta il primo, caustico e irriverente sognatore il secondo, capace di rappresentare con grande crudezza e realismo il quotidiano, quanto di tratteggiare personaggi bizzarri e indimenticabili. Per citare solo alcune delle opere più rappresentative dei due registi, ricordiamo alcuni capolavori di Oshima quali “Ecco l’impero dei sensi” (Ai no korida, 1974), “Merry christmas, Mr. Lawrence” (1983) e “Gohatto” (1999). Per quanto riguarda Imamura, invece, ricordiamo “Cronache entomologiche del Giappone” (Nippon konchuki, 1963), “La ballata di Narayama” (Narayama bushi-ko, 1983) e “L’anguilla” (Unagi, 1997). 

Va menzionato, nel contesto cinematografico dell’epoca, anche il film di Hiroshi Teshigahara del 1964, “La donna di sabbia” (Suna no onna), vincitore del Premio Speciale della Giuria di Cannes e nominato agli Oscar.

Il regista Oshima con la moglie e attrice Akiko Koyama
Il regista Oshima con la moglie e attrice Akiko Koyama

Il cinema giapponese contemporaneo

L’età postmoderna è foriera di nuove tematiche che si riflettono, con successo, nel cinema d’autore e di genere, specialmente nell’animazione.

Volendo approfondire separatamente il fenomeno Studio Ghibli e Hayao Miyazaki, possiamo dire che gli anni ’80 vedono la nascita di autori di culto proprio nell’animazione.

Per primo va citato sicuramente Mamoru Oshii, regista che incentra la sua poetica sull’analisi di un’epoca di cambiamenti irreversibili, declinandola a una costante riflessione sul rapporto tra uomo e macchina: lo struggente “Uovo dell’angelo” (Tenshi no tamago) è del 1983, ma è con l’adattamento del manga “Ghost in the shell” (1995) che consacrerà il suo talento visionario.

Talento visionario che caratterizza altri importanti autori di indimenticabili capolavori dell’animazione: Katsuhiro Otomo con l’adattamento di “Akira” (1988) e “Steamboy” (2004), e Satoshi Kon, con “Perfecf Blue” (1997), “Millenium Actress” (2001) e “Paprika” (2006).

Senza tralasciare il padrino del fenomeno anime Neon Genesis Evangelion, Hideaki Anno. Era il 1995 quando uscì questa breve serie televisiva, nata per essere un banale shonen (prodotto per ragazzi) di fruizione a tema mecha (fantascienza robotica), ma che nel corso della sua gestazione produttiva, così come delle puntate, si contorce su se stessa, astraendosi e criptandosi costantemente. Il risultato è, a detta dello stesso autore, una lunga e continua seduta psicoanalitica, che, aggiungiamo noi, deriva verso il simbolismo religioso, dimenticandosi completamente di dare un epilogo all’inerme spettatore. Incompiuta ed enigmatica. Non poteva che essere un capolavoro.

L’animazione riflette sulla transmedialità e sulle aberrazioni della società postmoderna, sempre più sintetica e spersonalizzata. 

Le stesse riflessioni caratterizzano anche i registi del cinema “in carne e ossa”. Nel 1989 un famoso comico giapponese decide che non è più tempo di far ridere la gente, se è vero che la maggior parte dei suoi film ha, a detta sua, risvolti tragici: nasce la stella di Takeshi Kitano. Il violento (lo dice già il nome) e pulp “Violent Cop” è del 1989: un’orgia di sparatorie e sangue dal primo all’ultimo secondo. Seguiranno futuri cult del cinema contemporaneo come “Sonatine” (1993) e “Hana-bi” (Fireworks), quest’ultimo vincitore del Leone d’Oro al Festival del cinema di Venezia del 1997.

Kitano parla il linguaggio contemporaneo utilizzando gli stilemi di un vecchio genere in disuso, gli Yakuza movie, che con lui hanno una seconda giovinezza. Non bisogna però dimenticare la delicatezza di Beat Takeshi nel trattare anche il genere drammatico, come avviene nello struggente “Dolls” (2002).

Altro importante regista che si dedica al revival del genere Yakuza è Takashi Miike: “Shinjuku triad society” (1995), “Agitator” (2001), “Dead or alive” (2002), solo per citarne una manciata. Dicevamo di registi prolifici come Mizoguchi e Ozu. Beh, che dire di Miike, che di film ne ha diretti più di 100 in poco più di 30 anni? Ma non è prettamente la prolificità che ha caratterizzato il cinema di Miike, un artista visionario a tutto tondo, dal gusto grottesco, ancorato a una violenza copiosa, ma capace anche di toccare l’animo dello spettatore (quando non è concentrato a provocarlo). Uno dei maestri indiscussi del cinema Giapponese, contemporaneo e non. 

Completa questa ideale triade di registi che hanno traghettato il cinema giapponese da fine anni ’80 a oggi Shinya Tsukamoto. Definito il Cronenberg giapponese per la sua interpretazione del body horror, nel 1989 sconvolse i cinefili di tutto il mondo imponendo il suo personalissimo manifesto Cyberpunk con “Tetsuo: The iron man”. Il resto della sua filmografia? Un crescendo continuo tra i vari “Tokyo Fist” (1995), “Snake of June” (2002) e “Nightmare Detective” (2006).

Oltre a questi grandi nomi (ancora in attività e a pieno regime), bisogna ancora fare un accenno al film “Departures” di Yojiro Takita, vincitore del Premio Oscar del 2009 come Miglior film straniero, e al più importante talento registico sfornato dal Sol Levante negli ultimi anni: Sion Sono. Regista eclettico, fuori dagli schemi e con una predilezione per il cinema di genere, contenitore perfetto per esporre i suoi temi estremi e sovversivi, come, ad esempio, nei film “Suicide Club” (2001) e “Love Exposure” (2008).

Il regista Otomo a bordo sulla moto rossa del film Akira
Otomo a bordo della moto di Kaneda, il protagonista di “Akira”.

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Articolo realizzato in collaborazione con Domenico Fava di “Nippofili in Giappone”.

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